Pinocchio non c’è più

Quelli della mia generazione, prima dei computer, di internet, dei social, hanno messo a fuoco fin dalla più tenera età il concetto di ‘bugia’ ascoltando la favola di Pinocchio.

Il grande Collodi ci ha fatto riflettere sul vero, sul falso e le loro conseguenze.

Le nuove generazioni avrebbero invece bisogno di una favola sulla mistificazione. Perché oggi non è tanto importante ciò che è vero, ma piuttosto ciò che lo sembra.

Essenzialmente il mondo digitale essenzialmente è diventato la trama delle nostre vite: la cornice entro cui si svolge ogni espressione, condizionando il nostro tempo secondo i parametri della funzionalità, dell’efficienza e dell’apparenza.

Con internet, la tecnologia da strumento si è fatta dimensione, ecosistema: un ecosistema in cui siamo così profondamente immersi da non renderci conto, fino in fondo, delle sue implicazioni, che si estendono dal lavoro alla salute, dal tempo libero alla ricerca scientifica, ma anche alla giustizia fino alla stessa legalità.

Con queste “tecnologie indossabili” la persona è modificata nella sua stessa fisicità: incorpora la tecnica e, quindi, il corpo diviene una password che rende accessibile a chiunque la nostra identità più remota attraverso un’identità manifesta innaturale.

Del resto, affidare ad un algoritmo impronte digitali, reticolo venoso, iridi, può sottrarci quanto di più intimo custodiamo come riferimento ultimo di noi stessi.

Gli algoritmi determinano, infatti, non soltanto la nostra percezione del mondo, ma la nostra stessa identità che, con internet diviene necessariamente plurale, affiancandosi a quella fisica anche un caleidoscopio di identità digitali adattabili al virtuale del momento, fino quasi a prevalere sull’identità reale.

In questa confusione di riferimenti che possano identificare ‘chi siamo’, finiremo con l’essere sconosciuti a noi stessi, ma assolutamente trasparenti a chiunque sia capace di estrarre frammenti di noi dalla galassia delle nostre tracce online.

Le nostre vite sono sempre più condizionate dall’inconscio digitale: ciò che ancora non sappiamo di noi, ma che la rete sa, per effetto del pedinamento dello sciame informativo prodotto dal nostro comportamento online.

Anche il processo del mentire sta acquisendo nuovi connotati: difficile non essere rintracciabili, individuabili; è complesso l’imbroglio sulla nostra vita professionale e di relazione. Con un processo rassicurante, tutto sembra verificabile.

In questo modo si abbassano le barriere dei processi di valutazione dell’altro, si adotta la scorciatoia della verifica online in sostituzione del buon vecchio guardarsi negli occhi e misurarsi. Questo processo è estremamente rischioso: disabitua ad ascoltare le proprie sensazioni favorendo il prendere per vero tutto quello che può essere raccolto online, senza tenere conto delle possibili mistificazioni.

Non ci si sofferma sul fatto che i profili e le informazioni pubblicati possono essere costruiti ad arte per avvalorare un’immagine che può essere, in realtà, molto diversa da ciò che appare.

 

Traendo informazioni dal nostro comportamento passato, l’algoritmo rafforza e conferma le nostre opinioni e le nostre scelte, indebolendo l’etica del dubbio, elevando sul gradino della verità ciò che è maggiormente scelto, visto, pubblicato, pur se falso.

Senza eccedere in visioni apocalittiche, ciò che è certo è che stiamo vivendo la più radicale trasformazione sociale, economica, antropologica, persino politica, dalla fine della seconda guerra mondiale.

L’assunzione di lavoratori, la determinazione dell’affidabilità di un prestito, la valutazione della capacità di un insegnante, persino in rating di legalità ai fini dell’aggiudicazione degli appalti sono sempre meno il frutto di una scelta umana e sempre più l’esito di selezioni algoritmiche, alle quali deleghiamo, quasi fideisticamente, il compito di decidere aspetti determinanti della vita delle persone.

La normativa di protezione dati, sotto questo profilo, rappresenta un fondamentale presidio di garanzia, tanto in termini di diritti esercitabili dall’utente, quanto in termini di complessiva responsabilizzazione dei titolari, a vario titolo coinvolti, nella sempre più articolata filiera in cui si snodano questi trattamenti.

Diventa fondamentale minimizzare il rischio, inaccettabile anzitutto sul piano culturale, di intendere la cessione dei propri dati, quale tributo necessario alla fruizione dei vantaggi offerti dal mondo connesso.

E si rivela indispensabile fare appello al senso critico, alle valutazioni, alle sensazioni che fin dalla notte dei tempi guidano il processo decisionale dell’umanità.

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