L’esperienza della violinista Maria Cristina Bonati
Il 2020 fu un punto a capo.
Ci fu un prima e ci fu un dopo.
La pandemia aprì un varco di ingresso ad un altro mondo a più dimensioni rispetto a quelle fino ad allora note all’umanità.
I corsi e ricorsi storici, di vichiana memoria, hanno da allora ceduto il passo ad un modello lineare che procede finalmente dritto, senza ripercorrere gli errori del passato.
Anche la pandemia, a ben guardare, poteva inserirsi in quelli che Jaques le Goff definì i “calmieri dell’umanità”: carestie, guerre ed epidemie che ciclicamente riaffiorano per ripristinare gli equilibri e forse insegnarle qualcosa di nuovo.
Ma il Covid–19 fu qualcosa di ancora differente perché colse l’umanità impreparata.
Nel loro delirio di onnipotenza, gli uomini avevano perso la reale dimensione di sé e della propria posizione nel creato e dovettero imparare a decentrarsi a favore di un bene maggiore.
Il distacco da tutto fu il primo passo per riposizionare i valori.
La differente fruizione di un tempo ritrovato riportò alla riflessione e alla compassione.
Per molti fu un percorso di presa di coscienza e conseguente rinascita.
Chi la visse come una sconfitta, non riuscì ad evolvere a livelli superiori dello spirito e si estinse insieme alla mentalità bieca ed egoistica che rappresentava.
Nel passaggio di distanziamento che portò dal progressivo abbandono della materialità a favore di una sempre crescente vita spirituale, le arti giocarono un ruolo essenziale, ancora una volta, nella storia dell’evoluzione.
La musica in primis, da sempre la più immateriale tra le arti, viveva in quel tempo il dramma inatteso dell’impossibilità del poter suonare insieme.
Orchestre ed ensemble, gruppi e bande, soffrivano il distacco dell’uno dal tutto ed ogni strumento, da solo, pareva aver smarrito il senso del proprio ruolo.
I musicisti, per formazione, sono da sempre creature solitarie, abituate a trascorrere ore di studio individuale col proprio strumento.
Di natura portati ad estrema sensibilità, affinano lo spirito nell’esercizio interiore e solitario a cui invita il proprio strumento.
Convinti da tempo della loro autosufficienza, scoprirono invece di aver bisogno degli altri per completare la loro armonia scoprendo di esserne loro stessi parte integrante.
Così iniziò quella lunga ricerca tecnologica fatta di tentativi e sconfitte, tesa a ripristinare il collegamento dei fili invisibili che alimentano la musica d’insieme. Ricerca che portò la musica, nuovamente, ad un punto di rottura e di non ritorno.
Inizialmente ognuno suonava il proprio strumento e il compito delle macchine era quello di unire ogni singolo in un molteplice; tuttavia la successiva fruizione richiedeva dotazioni tecnologiche adeguate e di alto livello per poter restituire il senso dell’operazione.
Man mano che la ricerca evolveva, la tecnologia musicale comprese che i collage musicali non rendevano l’essenza della musica, ma restituivano solo una sua immagine nell’illusione di un insieme fatto invece di frammenti di solitudini.
Allora furono i computer ad imparare a suonare e lo fecero nell’assoluta precisione delle loro dotazioni. Mai musica fu così perfetta; mai musica fu così muta. Il musicista tornò alla sua solitudine e alla sua impotenza.
La tracciabilità delle persone avvenuta in seguito all’epidemia del 2020, inizialmente finalizzata a monitorare gli spostamenti ed al contenimento dei contagi, aveva costretto ognuno, pian piano, a delegare la propria privacy ad un ente superiore in cambio di protezione, ordine e civiltà.
Il concetto di “privacy” aveva talmente sfumato i propri confini da arrivare infine a perderli. Il singolo non esisteva più in quanto tale, ma nella sua partecipazione ad un tutto.
Platone immaginava la Repubblica come un corpo umano composto dai vari organi, ognuno dei quali impegnato a svolgere al meglio il proprio ruolo per contribuire al funzionamento del tutto.
Il punto era quello: il corpo umano.
Senza il corpo, con i suoi limiti e confini, con i suoi diritti da difendere e la sua individualità da colorare, la creatività non trovava la scintilla che scalda il cuore.
Così, ancora una volta l’umanità si trovò a doversi ripensare, ripartendo dal sé, ognuno dalle proprie mani per costruire, suonare e accarezzare l’altro.
Tornò la musica, quella suonata dagli strumenti; tornarono gli spazi per condividerla, le orchestre e il pubblico per ascoltarla.
Tornarono gli sguardi sereni e i gesti densi di significato.
Tornò il calore delle mani nella mani, e il piacere di affondarle nel velluto.
Ora sì che è un’altra musica. L’empatia che oggi corre in questa nuova umanità amplifica il senso di ogni esperienza artistica e ne coglie l’essenza più alta.
Esiste l’individuo ma non l’egoismo; esiste il sé ma non l’io; esiste una purezza trasparente che necessariamente mantiene i propri confini, nel rispetto dell’altro.
È occorso perdersi per ritrovarsi, è occorso fare un passo indietro per avanzare di secoli.
L’esperienza del geometra Luigi Pistrini
Vita da sussidiati
Si alza come sempre alle 7:00.
È da sempre il suo orario, una sveglia biologica impeccabile.
Invece è da poco tempo che tasta, con il vagare della mano, al risveglio, l’altro lato del letto freddo e composto.
Cerca la presenza di sua moglie, morta da poco più di un anno di malattia. Non si è ancora abituato alla sua perdita.
È in pensione da pochi anni, ma il termine più adatto è Sussidio.
In effetti nel 2050 non esiste più ciò che ha rappresentato per tanti anni passati l’equo simbolo sociale rassicurante per antonomasia, destinato al popolo della terza età.
Il sistema previdenziale infatti implose molti anni fa, in seguito alla diffusione nel 2020 del Coronavirus. Fu un’ecatombe senza precedenti, con numerosi morti, soprattutto anziani.
Emerse un grave disagio sociale causato dall’aumento della disoccupazione in modo esponenziale a cui seguì una grande recessione economica.
Lo Stato intervenne con varie manovre finanziarie per poter affrontare la grande crisi, tra cui appunto la razionalizzazione e globalizzazione del metodo pensionistico, dato che erano diminuiti i lavoratori in grado di garantire il versamento dei relativi contributi. In pratica, raggiunti i 75 anni di età, la Previdenza ora elargisce una cifra uguale per tutti, senza distinzione di sesso, tipologia di lavoro e quote contributive versate negli anni.
È comunque poco, ma permette di vivere dignitosamente. Infatti i Sussidiati hanno particolari privilegi quali prezzi calmierati e convenzionati su tutti i prodotti di largo consumo, così come su medicine e prestazioni sanitarie.
Naturalmente tutti i beni di lusso sono esclusi, ma è opinione diffusa che un anziano non possa avere particolari esigenze.
Vita da Innominati
Egli vive in quei moduli abitativi progettati, realizzati e destinati al popolo degli anziani.
La legge infatti stabilisce che chi raggiunge l’età da Sussidio, deve necessariamente abbandonare la propria abitazione di proprietà o in locazione e trasferirsi in quelle nuove dimore.
Sono appartamenti dislocati in grandi palazzine, nelle periferie cittadine. La particolarità tipologica è che ogni unità ha una propria veranda, con un piccolo orto.
Un architetto famoso aveva inventato infatti, molti anni fa, il concetto di “riforestazione urbana” creando costruzioni residenziali denominate “Boschi Verticali”.
Perché allora non creare anche il concetto di “Orti Verticali?”
La curiosità più grande è che il nostro Sussidiato è stato, quando ancora lavorava, il “Construction Site Manager” di quelle opere edili in cui ora vive. Ricorda tutto, da quando hanno cominciato a scavare per gettare in opera le fondazioni, a quando hanno posato la copertura.
Anzi, prima di essere nominato Direttore dei Lavori dell’opera, ha anche progettato e disegnato con il software Eyes CAD, tutte le relative tavole progettuali.
Si disegnava con il movimento degli occhi e lui si è sentito molto fiero, nonostante fosse quasi in età da Sussidiato, di essere riuscito a utilizzare questo sistema così innovativo per quel tempo, destinato ai più giovani “Smart User”.
Tutte le sere, dopo aver visto qualche Trasparent Movie 4D nel soggiorno di casa, si concede sempre quello che ritiene il momento più atteso della giornata.
Si chiude nel suo piccolo studio, apre il tecnigrafo, accende un’antichissima lampada da tavolo, srotola un po’ di carta lucida ormai introvabile, ne ritaglia un lembo per ricavarne un foglio da attaccare sul ripiano e comincia a disegnare a mano, con i pennini a china supportato da riga e squadra, progetti che non verranno mai realizzati.
Ha ancora una mano ferma e precisa nonostante l’età, non sbava mai una riga e riesce a mantenere il disegno sempre molto pulito.
L’unica cosa che deturpa un po’ la tavola sono quei piccoli ed isolati rigonfiamenti circolari disseminati sul lucido, provocati dalle gocce che scendono dai suoi occhi.
Ma lì proprio non ci può fare niente.
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