Da cosa nasce l’esigenza di una norma che protegga i dati delle persone? Manca la consapevolezza che i nostri dati siamo noi.
Viviamo nella società dell’informazione, quella in cui il dato è svincolato da un supporto fisico, dunque difficile da proteggere e facile da intercettare, copiare, falsificare.
La mole di dati raccolti, trattati e scambiati ha assunto proporzioni e un tasso di incremento che non ha confronti.
DA 0 A 50.000.000 DI UTENTI
Per la tecnologia del telefono ci sono voluti più di 50 anni
Per la radio 38 anni
Per la televisione 13 anni
Per internet 4 anni
In questo oceano di informazioni che si muovono in continuo e restano disponibili oltre il controllo di chi le diffonde, emerge l’esigenza di difendere l’individuo collegato alla pluralità di informazioni che sono rese accessibili.
Lo sciame dei dati tende a descrivere e collocare il singolo, volta per volta, all’interno della parte di orizzonte che si sta osservando, portando così allo sviluppo di una pluralità di identità digitali dedicate. Ma serve rammentare che ognuno di noi è rappresentato dai dati che lo descrivono e ha il diritto di decidere cosa raccontare di sé e a chi.
Se in passato il processo decisionale era puntuale, definito e condizionato dalle decisioni espresse volta per volta e con effetti immediati, in un ambito concreto, reale e controllabile, il trattamento delle informazioni nel mondo digitale ha l’effetto di ridisegnare i confini del tempo e dello spazio, aprendo nuove sfide alla protezione degli individui.
In quest’ottica, dover informare qualcuno di cui raccogliamo informazioni, sul perché le raccogliamo, cosa intendiamo farne, a chi le diffonderemo, per quanto tempo le tratteremo, appare un atto dovuto, che non serve motivare.
Chiedere il permesso, il consenso, se intendiamo fare dei dati un uso diverso da quello indispensabile per fare ciò che dobbiamo, appare altrettanto logico.